Ho aspettato il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo come si aspettano le cose belle. E’ arrivato una ventina di giorni fa, lampeggiando in grassetto nella mia posta elettronica; poi c’è voluto un po’ di tempo. L’ho letto praticamente tutto d’un fiato, ieri mattina, in uno degli indifferentemente brutti corridoi di ateneo, seduta sotto a una fila lunghissima di lampioni d’altri tempi.
Anche Mandami tanta vita è cosa d’altri tempi, un vero oggetto d’altri tempi, che se fosse fotografia sarebbe seppia: il colore che lo informa e che, tutt’altro che neutro, lo attraversa.
Seppia è questo romanzo: elemento fondante, totale, generatore, capace di distinguerlo e isolarlo dal resto, dalle infinite possibilità di mondo. E, a pensarci bene, se non del seppia, almeno del bianco e nero l’avevamo già visto, nel romanzo precedente di Di Paolo (uscito sempre per Feltrinelli, nel 2011 – Dove eravate tutti). Nonostante portino in scena anni tra loro molto diversi – l’inizio e la fine del novecento – e certo non la stessa storia, gli ultimi due romanzi dello scrittore romano condividono un chiaro, doloroso senso di separazione; una distanza forzata e sofferta tra l’occhio di chi guarda e l’accadere dei fatti, sempre lontani – troppo -, e sempre, comunque, irraggiungibili.
In Mandami tanta vita, la narrazione si fa, al tempo stesso, produzione di una distanza ineliminabile, ma anche – proprio nella divaricazione tra racconto e occhi che guardano – installazione di senso, attraverso le forme variabili ma fra loro non troppo diverse della nostalgia, delle cose finite e della tristezza, e poi, ancora, della distanza (e dello struggimento).
Questo ultimo lavoro di Paolo Di Paolo afferma e sperimenta se stesso dentro la relazione – mai reciproca – tra lo sguardo e le cose.
Dentro a un guardare autoriale che si duplica (nel personaggio di Moraldo) e filtrato attraverso la doppia lente narratore-personaggio, il romanzo avvicina, poco alla volta, il proprio oggetto, il cuore: Piero (Gobetti) ovvero l’ammirazione; la proiezione, il sé e al tempo stesso l’altro.
E proprio dentro la persona di Piero, sentito, si avverte il cuore del cuore della storia: il paradigma dell’azione, la prassi, una fervente fede intellettuale, un progetto politico ambizioso, la tensione giovanilistica del credere e del fare.
Questa di Di Paolo è storia che si produce nella tensione irrisolta, e ancora una volta doppia: tra Moraldo e Piero – modello mai di carne, solo ideale, in ogni caso inarrivabile -, come anche tra Piero e la vita – densa, bruciante, sempre e crudelmente un passo oltre.
Dentro un’altra epoca, dentro un’altra storia, Paolo Di Paolo torna a esplorare il mondo narrativo che gli appartiene. Con grande maturità, ma con – forse – meno naturalezza, questa volta, con appena un po’ meno calore.